Storie delle famiglie
20/05/2019
A casa, lontani da casa
Storia di Irene, mamma di Casa Ronald
Io, lui, noi
Ciao a tutti, mi chiamo Irene e sono la mamma di Ginevra e Diego e lui è il babbo, Daniele. Dodici anni fa con Daniele è andata così, amore a prima vista. Ci siamo conosciuti e ci siamo amati da subito, mi ha chiesto se volevo un figlio e io ho risposto di sì. Lo so, dall’esterno potrebbe sembrare una scelta affrettata, ma vi assicuro che è stata la migliore che potessi mai fare. Perché dopo nove mesi è arrivata lei, la mia melina, la nostra melina.
Ginevra
Delle problematiche di Ginevra non se n’era accorto nessuno, ma poco importava, la gravidanza l’avremmo portata a termine comunque. Mentre i medici ce la presentavano, Daniele non li ascoltava neanche e chiedeva solo di poterla vedere. È stato quello il momento in cui abbiamo realizzato di doverci preparare a un qualcosa che non avevamo previsto, un problema da dover affrontare di petto, da subito. I pensieri erano tanti, ci domandavamo cosa ne sarebbe stato di lei, del suo futuro. Abbiamo capito presto che bisognava concentrarsi non tanto sul domani ma a ciò che avremmo potuto fare per lei ogni giorno, al suo fianco.
La nascita di Diego
Sono iniziate le visite, i controlli, le paure, le notti in ospedale, i pianti. Occasioni che hanno fatto crescere me, Daniele e anche la nostra piccola, ci hanno unito tantissimo. Una prova? Diego. Lo abbiamo voluto dopo soli venti mesi, andando contro il volere dei medici. Ci dicevano di aspettare e che non era il caso vista la situazione, ma a noi non interessava. Pensandoci, se non l’avessimo fatto Ginevra non sarebbe quella che è oggi. Sarebbe cresciuta sotto una campana di vetro e noi questo non lo volevamo.
L’arrivo a Firenze
Un giorno Ginevra si è sentita male, così hanno deciso di traferirla dall’ospedale di Pisa al Meyer di Firenze. Ci dicevano che la situazione era molto grave e che non ce l’avrebbe fatta, eravamo distrutti. Non lo auguro a nessuno, sono momenti in cui vorresti che tutto fosse solo un incubo da cui potersi risvegliare, ma non era così. In quei giorni non ci siamo mai scollati dall’ospedale. Dormivamo nei corridoi, ci lavavamo nei bagni, stavamo là dalla mattina alla mattina dopo. I medici ci consigliavano di andare a riposare, ma dove potevamo andare? Ogni secondo poteva cambiare la situazione, noi non andavamo da nessuna parte!
Casa Ronald
Dopo cinque giorni di adattamento nei corridoi siamo stati fortunati, abbiamo trovato Casa Ronald. Io non la conoscevo, assolutamente. Siamo rimasti molto colpiti dall’ambiente, dalla pulizia. Ci ha stupito molto l’accoglienza dei volontari e del personale, persone stupende, che nonostante fossimo devastati e non avessimo nessuna voglia di parlare, sono riusciti a strapparci dei sorrisi. E ripeto, in quei momenti lì non hai voglia. Non vedi l’ora di andare su, di lavarti, di chiudere gli occhi, perché sai che la mattina dopo li devi riaprire per tornare in ospedale. Dormi per sfinimento, perché altrimenti non dormiresti.
Sentirsi in famiglia
Quando poi in Casa Ronald è arrivato anche Diego e ci siamo ricongiunti, è cambiato tutto. Ginevra lo ha visto entrare dalla porta e ha alzato le braccia per stringerlo forte. Se non fossimo stati ospiti qui, non so quanto avremmo retto la situazione. Non eravamo a casa nostra, ma lo eravamo lo stesso. A qualsiasi ora tornavi, c’era qualcuno che ti chiedeva com’era andata, un’altra mamma, un papà, pronti ad ascoltarti. C’era qualcuno a cui poter parlare del desiderio di Ginevra una volta uscita dall’ospedale. Potergli dire che una volta tornata a casa, ci saremmo buttati tutti e quattro sul lettone a farci le coccole.
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